PSICO BIO-GALATEO: IMPARARE FACENDO (1a parte)

(Valeria Guerra)

Immaginate una terrazza sul mare, la luna piena, una leggera brezza e una tavola elegantemente preparata: tutto è perfetto! Mangiare non è solo nutrirsi, è soprattutto un’esperienza che dà piacere e stimola i sensi. È festa, bellezza dello stare insieme, del godere e del far godere agli amici uno dei migliori piaceri della vita, preludio ad altri piaceri…

Ecco che ad un tratto l’incanto svanisce: che cosa è successo?

Giungono gli ospiti attesi, voci che si sovrappongono, presentazioni frettolose, atteggiamenti marcatamente sopra le righe e modi di dire convenzionali. Peccato, sarebbe bastato un tono di voce moderato e buone maniere e l’incanto non sarebbe svanito.

Se questo, abitualmente, non si verifica s’intende che la questione è più complessa di quel che appare.

Buon punto di partenza per osservazioni concrete riguardo tale complessità è stata la partecipazione a convegni inerenti la mia professione di psicoterapeuta; convegni cui di solito segue la cena di gala con consueta  rappresentazione del paradosso dello stile. Proprio quelle persone che poco prima dal podio dei relatori, impettiti e saccenti, pontificavano devianze comportamentali e taumaturgici rimedi, lasciano sull’imbandito piatto del simposio la colpevole ignoranza del lessico conviviale.

Trovo sorprendente costatare che  esperti della comunicazione,  professionisti dell’immagine, del marketing, della selezione del personale e scrittori di grande genialità proprio a tavola dimenticano, non diversamente dalla maggioranza delle persone, le norme del Galateo; proprio loro che insegnano come conoscere una persona decodificando il linguaggio del corpo.

A meglio osservare la mancanza di autodisciplina a tavola rappresenta un aspetto di trasversalità sociale che impensabilmente accomuna stratificazioni culturali, professionali e generazionali inimmaginabili appena lasciata la tavola.

Una specie di livella sui generis alla Totò.

Alla luce di queste considerazioni ho preso la decisione di proporre un corso di Psico bio-galateo pensato come mezzo di riflessione e di lavoro su sé stessi.

Consapevolezza è, sottotraccia, il leitmotiv del titolo a tema.

Portare in noi la consapevolezza che – in una delle azioni quotidiane più consuete come il mangiare, più abitudinarie e quasi inconsapevoli com’è il guardare, il muoversi, il conversare e il rapportarsi con gli altri – involontariamente ci si mostra come effettivamente si è e come, forse, non vorremmo mostraci: è l’occasione per conoscerci a fondo e riprendere il dominio di noi stessi.

Infatti, a tavola più che in altre situazioni si abbassano inconsapevolmente le difese, ci si lascia andare e a un attento e preparato osservatore esterno si mostra la natura più recondita del proprio essere, l’esteriorizzazione della propria vera essenza.

Durante la giornata, ci diamo un tono, ci costruiamo un’immagine, interpretiamo una parte e la finzione talvolta bene o male regge fino al termine della recita.

A tavola no, non è così.

La tavola è la cartina al tornasole che mostra chi realmente siamo e smaschera la finzione.

Occorre ricordare che i neuro scienziati cognitivi dicono che il cinque per cento del nostro comportamento giornaliero è controllato dalla nostra mente cosciente mentre il novantacinque per cento dal subconscio. Dunque, nella nostra esistenza quotidiana la mente subconscia è la fonte biologica più potente. La mente subconscia è un nastro registratore che ci controlla e, quando lo fa, lo fa senza che noi ce ne accorgiamo. Preso atto di questo naturale stato del nostro essere, si può consapevolmente decidere di porre sotto controllo la parte che di noi sfugge.

Vi invito dunque ad accomodarvi a tavola, a estraniarvi dalla situazione di commensali per porvi come osservatori non visti anche di voi stessi.

Passi che si abbia una fame da lupi e che questo robusto appetito è spesso la trappola che disvela senza troppa fatica quanto abbiamo fatto nostro il rispetto per le regole della buona educazione (sobrietà ed equilibrio sono segni di rispetto per i nostri commensali, per il cibo, per l’amore e la fatica verso chi lo ha preparato e per chi lo ha offerto).

È a questo punto che si alza il sipario e si dà inizio alla rappresentazione di sé: rappresentazione il più delle volte tragicomica e imbarazzante in quanto è proprio in questa circostanza che le lacune comportamentali si notano maggiormente e rivelano le nostre radici culturali e il nostro livello di evoluzione. è in conseguenza di tale generale e demoralizzante situazione che mi sono posta il compito di individuare un modus operandi che permetta di essere protagonisti della scena invece che semplici burattini manovrati dalla propria emotività.

Vero è che siamo a tavola, ma facciamo che non comandi la pancia!

Scegliere consapevolmente di concentrarsi sul come si mangia, scegliere di tenere la mente concentrata sulle azioni che stiamo compiendo, rimanere in uno stato di presente attenzione ci dà la possibilità di essere vigili e di iniziare un percorso di autoconoscenza.

Mi è stato più volte richiesto di occuparmi della selezione dei candidati nell’ambito di nuove assunzioni e – passi il curriculum, passino i colloqui, le prove attitudinali, i test Minesota, Luscher e altro, ci mancherebbe – se mi è concesso porto il candidato a colazione e lì converso.

Lì comprendo e ottengo molte più informazioni di quante me ne darebbe ogni altro test perché come è noto il corpo parla e, a differenza della parola, non mente mai.

Credetemi, con quella prova si ha una lettura di straordinaria efficacia.

La tavola è un valido paradigma per comprendere se si è effettivamente congruenti con quanto si afferma di essere.

La tavola è uno dei tanti momenti in cui il sé istintivo fa capolino e inesorabilmente ci disvela, inesorabilmente.

Se quello che viene disvelato non ci appartiene al punto da vergognarcene perché non ne prendiamo atto e lo correggiamo?

Nel momento in cui prendiamo consapevolezza che la nostra reale libertà e crescita consiste nell’assumerci al cento per cento la responsabilità di ciò che ci accade abbiamo trovato la soluzione dei nostri problemi o di quelli che noi riteniamo tali,  e a questo punto abbiamo in mano le redini della nostra vita e smettiamo di attendere dagli altri la liberazione dalle avversità.

Certo, nella maggioranza dei casi questa presa di coscienza non avviene in modo automatico, solo in rarissimi casi potrebbe verificarsi il miracolo e non è il nostro caso, succede dopo aver scelto e voluto fortemente di vivere un’esperienza di trasformazione profonda.

Mai pensato che il nostro nemico sia in casa nostra, che il nemico siamo noi?

È dunque importante rendersi conto che stare a tavola e consumare un pasto, in qualunque modo esso sia, anche il deprecabile fast food, è un mezzo molto efficacie per promuovere un processo di autoconsapevolezza.

A tale proposito è indispensabile che ci auto-osserviamo con attenzione e ci chiediamo cosa esattamente ci procura fastidio nel farlo; molto probabilmente ci renderemo conto che avremo a che fare con quella parte di noi stessi che non abbiamo ancora ben integrato e che quindi non ci procura buone sensazioni.

È ora il momento di domandarci, al fine di cogliere la causa del nostro fastidio, che rapporto si ha, per esempio, con l’osservanza delle regole.

Perché m’innervosisco se sono sollecitato a seguire le norme di buona creanza?

Perché anche a tavola sono costretto a controllarmi?

A riguardo spesso mi sento dire: almeno a tavola lasciami vivere!

… è veramente disarmante per tutti prendere atto dell’irritazione che procura sentirsi indotti a sottolineare l’inadeguatezza alla situazione.

Ci sentiamo perfetti, dunque nessuno ci può giudicare.

Nemmeno noi stessi?

Giudice penitente.

Ricordate “La caduta” un formidabile romanzo di Albert Camus?

Il protagonista e narratore di questo romanzo, l’avvocato Jean-Baptiste Clamence, è l’emblema dell’uomo che vive nell’assurdo, la categoria filosofica utilizzata da Camus per analizzare la condizione umana. Clamence è colui che si rassegna a una vita assurda, che non combatte, ma che moltiplica la sua assenza di senso attraverso la ripetizione di atti privi di significato che lo portano a non distaccarsi mai dal perenne sentimento di ansia ed estraneità che la caratterizza.

È a questa visione di vita che decidiamo di voler aderire?

Mi auguro proprio di no!

L’uomo è un essere sociale, vive, sopravvive e si sviluppa perché si riconosce in un insieme di valori etici e morali che, se ben coltivati, evolvono in un percorso di crescita personale che si congiunge con la parte saggia che è in ognuno di noi.

Questo discorso è un invito a lavorare su noi stessi per imparare a governare la nostra parte istintuale, impresa gigantesca e  non realizzabile in tempi brevi.

Per questo ho individuato nell’azione del mangiare l’attuazione di una tecnica psicofisica efficace perché è applicabile in modo costante e frequente posto che nutrirsi è atto quotidiano, indispensabile. Compito sicuramente impegnativo essendo noi tendenzialmente pigri e poco inclini ai cambiamenti.

Proprio a tavola è dove le regole di massima non sono conosciute e rispettate anche da parte di chi per ruolo sociale, per  cultura ostentata o per origini dovrebbe conoscerle “naturalmente”.

Il momento particolarmente piacevole del mangiare sia che ci si trovi soli, sia che si sia in compagnia, offre l’opportunità di trasformare un’abituale ed errata consuetudine in un esercizio costruttivo che consente di fare un salto di qualità, che eleva dal proprio stato di macchina psico-biologica alla propria vera essenza, alla  coscienza del sé.

È la stessa differenza che passa tra il semplice respirare e il vivere.

PSICO BIO-GALATEO (2a parte)